In una stagione dell'arte in cui poetiche, esaltazione tecnologica e teorizzazioni tendono a salire in primo piano, ingabbiando come in un involucro di propaganda l'essenza del lavoro artistico, quello che colpisce di più nelle opere di Monica Giarrè è l'intensa progressione della ricerca. Nell'arco del breve tempo in cui l'artista è andata approfondendo con determinazione tecniche e motivi del proprio operare, la pagina è maturata in senso espressivo, abbandonando velocemente certe ridondanze di forma, mostrando un controllo della materia sempre maggiore e una struttura più definita e corposa, quasi Giarrè avvertisse il pericolo del già noto e volesse evitare il fraintendimento secondo cui di solito i dipinti d'interni o di paesaggi custodiscono valori certi e assecondanti. Così il segno si è ispessito, con l'andatura lenta e sicura delle cose che nascono e crescono. Nelle sue nature morte l'esempio di come si possa coltivare il proprio gusto e la propria mano passando da riferimenti certi, da una colleganza di osservazioni sugli antichi e sui moderni. Questo nutrimento elaborato senza alcuna viziatura di esibizione, di stilismo, è divenuto un glutine del tutto personale, filtrato da una qualità di tono e di ritmo che si va sempre più precisando. La pittura di Monica Giarrè, che ha affinato i suoi mezzi per ostinazione di lavoro quotidiano, con coraggio di distruggere e rifare, ha vita nelle suscitazioni della memoria, nelle emozioni, in un mondo in cui alla visionarietà romantica si unisce l'amore per i valori della vita minuta, fatalismo e fantasia. I suoi primi lavori riportavano colori e profili ancorati a un'impostazione tutto sommato narrativa, approfonditi con la sensibilità di chi ha vissuto con partecipazione e stupore. Poi i fili sotterranei della malinconia si sono tirati, corrugando la materia, arricchendo di significati riposti ogni segno, ogni traccia di spatola...
Nicola Nuti