L’immagine del cuore di una tigre avvolto nella pelle di una donna è una metafora di Shakespeare. È tratta dalla terza parte del suo Enrico VI e sovrappone in modo paradigmatico i campi semantici dell’avvolgente femminilità (esteriore) e della sorprendente bestialità (interiore), in una figurazione retorica a cui il drammaturgo ricorre più volte, nelle sue tragedie e nei drammi storici, per alludere al carattere affascinante e terribile allo stesso tempo, di una donna virago, androgina, compartecipe di una doppia natura, virile e femminile insieme. Cosa accomuna Tamora, Giovanna d’Arco, Margherita d’Angiò, Eleonora d’Aquitania, Goneril e Regan, Lady Macbeth, Volumnia? Sono tutte donne che scelgono di sfidare apertamente i modelli patriarcali, insidiandone il dominio e rivendicandone il potere. Rappresentano una minaccia all’ordine normativo (maschile), e vengono per questo attaccate dai loro antagonisti, che le descrivono come streghe, mostri androgini, non più donne ma ibridi osceni di maschile e femminile. In realtà sono personaggi interessantissimi, da rileggere e riscoprire sotto una luce diversa, per certi aspetti addirittura “rivoluzionari”. Attraverso quali strategie queste figure contestano le strutture sociali patriarcali e rivendicano la loro piena e libera identità di donne di potere? La visione dell’androginia che emerge dai testi shakespeariani paradossalmente scopre la sua portata più “rivoluzionaria” nella forza degli archetipi, antichi e moderni: dalle virago del teatro greco di Eschilo e Euripide all’“icona androgina” di Elisabetta I; dalla mediazione latina di Ovidio, Seneca e gli storiografi dell’Urbe, passando attraverso le riflessioni sulla virtù vicine alle teorie di Machiavelli, fino al dibattito culturale sul rapporto fra donne e potere che appassionò la scena intellettuale europea a cavallo fra Cinque e Seicento.